16 dicembre 2021

Stiamo diventando come le "rane bollite" di Chomsky?

Conoscete il “principio della rana bollita”? E’ utilizzato dal filosofo americano Noam Chomsky per descrivere la Società e i Popoli che accettando passivamente, il degrado, le vessazioni, la scomparsa dei valori e dell’etica, accettano di fatto la deriva. 

Non ci sono basi scientifiche a dimostrare questo principio, ma è un ottimo spunto, valido in sociologia e psicologia, per spiegare determinati comportamenti. 

Ma cominciamo dall’inizio, di cosa stiamo parlando? 

Mica penserete davvero che vogliamo mostrarvi come bollire una rana. Assolutamente no, questo principio serve a spiegare la capacità di adattamento che ha l’uomo e che spesso questo adagiarsi e accettare gli eventi porta inesorabilmente alla morte, e infatti c’è chi afferma che non ha importanza la durata della vita, ma la qualità.



«Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone» e si sarebbe salvata. 

Questo per far comprendere che la mente così come il corpo dell’essere umano, adattandosi a provvedimenti gradualmente piccoli ma via via crescenti, potrebbero essere portati al relativo decadimento se si superasse il “punto di non ritorno”, cioè se si oltrepassasse la condizione oltre la quale il cambiamento diventerebbe irreversibile.

Il principio della rana bollita nella vita di tutti i giorni

In quali occasioni del quotidiano ci si comporta come la rana? Per esempio, quando ci si trascina in una relazione che non funziona, si resta legati a un lavoro insoddisfacente e più in generale si vive un’esistenza che non si sente propria e che è causa di frustrazione e infelicità.

Le prime avvisaglie vengono ignorate o giustificate. All’inizio, non si fa caso alla distanza emotiva o (peggio) alla violenza verbale e psicologica del partner oppure la si riconduce a un momento di stress. L’atteggiamento aggressivo e svalutante del capo e dei colleghi è vissuto come competizione o è considerato la conseguenza di una propria mancanza o errore. Il senso di vuoto e negatività che si prova viene addotto a un periodo di stanchezza oppure rimane inascoltato del tutto.

Questi comportamenti sono messi in atto in maniera più o meno cosciente di continuo e generano un circolo di assuefazione e adattamento, che porta ad accettare (o a ritenere inevitabili) situazioni sempre più insostenibili e a camminare su un filo sempre più sottile. Fino alle estreme conseguenze, ovvero al momento in cui la rana muore bollita. Allora, il ciclo viene interrotto da un evento dirompente, che ha un effetto sconquassante, a volte drammatico, se non addirittura violento, sull’esistenza di chi lo vive.

In definitiva il pensiero di Chomsky si può compendiare in questa citazione «se valutassimo quel che avviene nella nostra società da alcuni decenni, ne conseguirebbe che stiamo subendo una deriva alla quale ci stiamo abituando lentamente. Molte cose, che ci avrebbero inorridito venti, trenta o quaranta anni fa, gradualmente sono diventate banali, mitigate e, oggi, ci disturbano poco o lasciano la maggior parte delle persone sicuramente indifferenti. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità dell’ambiente naturale, alla bellezza e alla felicità di vivere, si attuano lentamente e inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute».

28 agosto 2021

Sono diventato anche meccanico di biciclette

Era da qualche settimana che il cambio della bici non andava bene, non rimaneva in posizione e la catena tendeva a spostarsi da sola, per cui dovevo tenere sempre la mano fissa sulla manopola rotante per non farla muovere.



Ho cercato su internet lo stesso tipo di cambio (Manopola rotante cambio SRAM MRX 3 VELOCITÀ), l'ho trovato nel sito di Decathlon a 9,99 euro e dopo qualche giorno sono passato a ritirarlo in negozio.

Nonostante non avessi mai fatto nessun tipo di intervento sulla bici, mi sono documentato velocemente su Youtube e il primo pomeriggio di maltempo, impossibilitato ad andare al mare, mi sono messo in garage a tentare la riparazione.

Cribbio! Pensavo fosse più complicato.

Ho tribolato un po' per estrarre la manopola di gomma ma una volta risolto è bastato allentare la vite che stringeva il cambio ed estrarlo. Avevo un dubbio del cavo, non sapevo se potevo lasciare quello presente o cambiarlo ma visto che il meccanismo non si apriva e quello nuovo era compreso di filo metallico, la scelta è stata quasi obbligata.

Ho allentato la vite che teneva fisso il cavo sul meccanismo del cambio, vicino la corona e tirando dall'altro lato l'ho sfilato. Una volta messo quello nuovo, in maniera molto semplice, mi rimaneva l'ultimo dubbio su quanto lo dovessi tirare. Da perfetto ignorante, cercando di usare la logica, ho messo il cambio sulla posizione più lenta, la prima marcia, ed ho fissato il cavo. Ho rimesso la manopola di gomma ed il gioco era fatto.

Prima di tagliare l'eccedenza del cavo ho fatto un giro di prova e due marce su 3 non avevano problemi per cui, dato che uso sempre la quella centrale, il lavoro era risolto.

Diciamo pure che non era una cosa fantascientifica ma senza conoscere i trucchi del mestiere che tante volte sono fondamentali e soprattutto considerando la scarsa attrezzatura a disposizione, posso dire di essermela cavata egregiamente.










20 agosto 2021

La leggenda di Kópakonan, la donna-foca delle Isole Fær Øer

La leggenda di Kópakonan (la donna foca) è uno dei racconti popolari più famosi delle Isole Fær Øer.



🔴 A Mikladalur è ambientata una tipica leggenda di una selkie (donna-foca). Si credeva infatti che le foche fossero degli esseri un tempo umani che cercavano volontariamente la propria morte nell'oceano. Una volta all'anno, la dodicesima notte, esse potevano venire di nuovo a terra, spogliarsi della propria pelle e divertirsi proprio come esseri umani, ballando e divertendosi.


Una volta, un giovane contadino andò in spiaggia per vedere le selkie danzare. Lì vide una bellissima fanciulla perdere la propria pelle di foca, e fu colto dall'intenso desiderio per lei. Le nascose però la pelle, in modo che lei non potesse tornare in mare alla fine della notte, e la affrontò costringendola a sposarlo. L'uomo le teneva la pelle in una cassa, e la chiave con sé giorno e notte. Così vissero per diversi anni, procreando insieme diversi figli. Un giorno, mentre era fuori a pescare, scoprì di aver dimenticato di portare la chiave con sé, remando verso a casa con tutta le sue forze. Quando tornò a casa, la moglie era scappata in mare, lasciando i figli dietro di sé, ma con solo con la cura di aver prima spento il fuoco e nascosto gli oggetti appuntiti, per non far loro del male.


In seguito, gli uomini di Mikladalur progettarono di andare in profondità in una delle caverne lungo la costa per cacciare le foche che vivevano lì. La notte prima della partenza, la moglie-foca dell'uomo gli apparve in sogno: gli disse che se fosse andato a caccia di foche nella caverna, avrebbe dovuto assicurarsi di non uccidere la grande foca-toro che avrebbe mentito sull'ingresso della caverna, dato che quello era il suo marito. Né avrebbe dovuto fare del male ai due cuccioli di foca nelle profondità della grotta, perché erano i suoi due piccoli figli, e gli descrisse le loro pelli in modo che lui li potesse riconoscere. Ma l'agricoltore non diede ascolto il messaggio del sogno. Si unì pertanto agli altri alla caccia e con loro uccise tutte le foche su cui potessero mettere le mani. Quando tornarono a casa, il pescato fu suddiviso tra tutti i presenti e per la sua parte il contadino ricevette sia la grande foca-toro e sia la pinna anteriore che quella posteriore dei due piccoli.


Alla sera, quando la testa della foca grande e le membra di quelle piccole furono cotte per la cena, ci fu un grande schianto nella stanza e, tra il fumo, la donna-foca apparve sotto forma di un terrificante troll; annusò il cibo negli abbeveratoi e gridò la maledizione: «Qui giace la testa di mio marito con le sue ampie narici, la mano di Hárek e il piede di Fredrik! Ora ci sarà vendetta, vendetta sugli uomini di Mikladalur, e alcuni moriranno in mare e altri cadranno dalle cime delle montagne, finché non ci saranno tanti morti quanti possono circondare, tenendosi per mano, le rive dell'isola di Kalsoy!


Appena ebbe pronunciato queste parole, svanì con un grande fragore di tuono e non fu mai più vista. Ma ancora oggi, purtroppo, capita di tanto in tanto che uomini del villaggio di Mikladalur anneghino in mare o cadano dalle cime delle scogliere; si deve quindi temere che il numero delle vittime non sia ancora abbastanza grande da permettere a tutti i morti di collegarsi per mano in tutta l'isola di Kalsoy.


Oggi sulla riva c'è una statua della selkie, tra le onde che si infrangono a Mikladalur.

23 luglio 2021

Scompare anche l'ultima traccia del calzaturificio Manas, arriva Damiano Latini

MONTECOSARO - Da qualche giorno, con la pitturazione del capannone e il cambio dell'insegna, è scomparsa anche l'ultima traccia di quella che fu una delle principali attività produttive del paese per molti anni. 





Quell'inconfondibile verdone con il logo giallo nel sito produttivo di via Tangenziale è stato sostituito dai colori aziendali della Damiano Latini, azienda che "realizza soluzioni d'arredo innovative dal design contemporaneo, adeguabili ad ogni ambiente e ad ogni necessità", come recita il loro motto. Apprendiamo inoltre dal loro sito internet che l'azienda è nata venti anni fa come fornitore di maniglie per molti cucinieri italiani ed internazionali, diventando nel tempo un punto di riferimento per il settore e questo successo iniziale e l'urgenza creativa, li hanno spinti ad ampliare l'attività per proporre soluzioni d’arredo più complesse come librerie e pareti divisorie completamente personalizzabili. 

Nel fare un grosso in bocca al lupo a questa società che sta ampliando il proprio sito produttivo, nel pieno della crisi pandemica, ricordiamo la storia di quella che c'era fino a poco tempo fa e comunque continua ad esistere come marchio, prodotto da una società in provincia di Firenze (Alba Moda) e dove tutt'ora lavorano ancora, con mille difficoltà dovute alla distanza, alcuni dipendenti locali. 

Manas nacque nel lontano 1956, quando a Montecosaro Giuseppe Sagripanti avviò un piccolo laboratorio artigianale ed iniziò a produrre le prime pantofole "Conchita". 

"L'ingresso di nuove tecnologie - si legge sul sito aziendale - e un generale perfezionamento qualitativo, fecero da volano per la crescita e lo sviluppo dell'attività negli anni 60, quando iniziò l'internazionalizzazione, con i primi ordini dal nord Europa ed entrarono a far parte dell'attività i figli di Giuseppe. E' negli anni 70 che nasce ufficialmente Manas, dall'acronimo delle iniziali dei nomi dei tre figli del fondatore: Marino, Nazzareno e Angelo Sagripanti, con lo stabilimento tutt'ora presente in via Tangenziale, che diventa Società per Azioni nel decennio successivo, quando entrano a far parte della grande famiglia Sagripanti cinque nuovi soci-collaboratori con una piccola quota pro-capite. Proprio in quegli anni, viene avviato un forte processo di managerializzazione che consentì all'azienda di crescere e affermarsi ulteriormente. Negli anni Manas 90 sposa una linea vincente, quella della diversificazione dei marchi è nascono prodotti di stili diversi, capaci di attrarre una platea sempre più vasta di clienti. E' in quegli anni che la terza generazione dei Sagripanti si inserisce nell'attività di famiglia e che nasce la seconda società del gruppo, la ditta Alfiere. 

Negli anni che segnano l'inizio del nuovo millennio, Manas raggiunge il prestigioso traguardo del mezzo secolo di età e gli affari vanno a gonfie vele, in particolare per la nuova nata, la ditta Alfiere, che ha incrementi di fatturato a due cifre anno su anno. Gli anni 2010, per concludere, sono quelli purtroppo segnati dall'inizio della crisi, che portano alla fusione di Manas e Alfiere, con la creazione della Alma spa, per cercare di ottimizzare le risorse e contenere i costi ed il resto è storia recente". Il licenziamento collettivo che ha sancito la chiusura dell'attività è stato il 30 giugno del 2018.







26 giugno 2021

Il nostro incidente in barca di molti anni fa

In questo periodo in cui si parla molto di incidenti nautici, vorrei ricordare quello capitato alla nostra barca, un X-332 Sport della X-Yachts dell'armatore Sandro Paniccia, proprio il 26 giugno di molti anni fa (era il 2004). 



Era una giornata molto calda, anche se non ai livelli di questo bollente 2021, con un vento oscillante tra gli 8/10 nodi. Stavamo disputando la seconda prova dell'Italian Cup, la regata dei Cavalieri di Malta giunta alla sesta edizione, quando al termine del primo lato di quel bastone, arrivati alla boa di bolina, passiamo Asterix all'intero quando questi signori, impegnati nelle manovre di preparazione all'issata dello spinnaker, senza aver notato minimamente la nostra presenza, ci strambano addosso colpendoci perpendicolarmente con la loro prua, proprio sotto ai miei piedi (prontamente retratti) che ero li a guardare impotente. Fine della regata, fine della coppa e, alla seconda competizione del calendario, fine di quella stagione velica.
















24 maggio 2021

Trionfo Maneskin all'Eurofestival, Toto Cutugno: «Bravi e originali, felice di passare loro il testimone»

Toto Cutugno, un post molto affettuoso quello dedicato sul suo profilo facebook ieri ai Måneskin per il passaggio del testimone della vittoria italiana all’Eurofestival, dopo 31 anni. 


Che cosa le è piaciuto di più della performance dei quattro ragazzi romani?

«Mi è sembrata soprattutto originale: ecco, originali è la prima definizione che mi è venuta in mente dopo averli ascoltati».

I Måneskin cinque anni fa erano ancora una street-band, poi la popolarità conquistata ad “X Factor”, la vittoria a Sanremo. quella all’Eurofestival… Consiglio per non andare… “fuori di testa”.

«Stare sempre con i piedi per terra, trovare di continuo delle idee musicali interessanti, ricercare dunque, studiare, testi inclusi, ho capito che ai testi ci tengono parecchio. E, soprattutto, rimanere insieme, condividere la vita e il palco perché è evidente che questa è la loro forza come quella di ogni band».

La sua storia all’Eurofestival è strana: nel ’90 arriva secondo a Sanremo con «Gli amori», i Pooh che hanno vinto con “Uomini soli” non vanno a Zagabria e dunque tocca a lei, che porta però una canzone diversa da quella che ha presentato in Riviera, «Insieme: 1992», un brano di vocazione europeista. E vince. Come andò?

«Ero e sono innamorato di quella canzone. Ne avevo scritto il testo e la musica. Era un brano sinceramente ispirato, che mi apparteneva totalmente, lo sentivo mio. La soddisfazione che ho provato vincendo è stata immensa. Sono stato premiato anche per il miglior testo. Proprio come è accaduto ai Måneskin con la loro canzone quest’anno. Quella sera di maggio di trentun anni fa la ricordo ancora come un sogno e invece era realtà».

Vero che qualcuno voleva adottare la sua canzone come il nuovo inno del Vecchio Continente?

«Nei mesi successivi alla vittoria, nei miei spettacoli in giro per l’Europa, il pubblico mi accompagnava in coro. In particolare mi commossi una sera, durante un concerto in Romania: mi fecero trovare a sorpresa un gruppo di bambini che cantò “Insieme” come inno dell’unità europea. Niente frontiere, né confini, un’unica bandiera, tutti fratelli di un unico continente. Mi colpì molto quel gesto».

Qualcuno malignò che si trattasse di una furbata.

«Non mi risulta».

Quella del 1990 in realtà avrebbe dovuto essere la sua seconda partecipazione al contest europeo perché nel 1980 lei aveva vinto Sanremo con «Solo noi». Ma a L’Aja quell’anno si presenta Alan Sorrenti che a Sanremo non c’era nemmeno passato da turista. Che successe?

«Successe che mi incavolai parecchio… e mi incavolo ancora adesso, ricordandolo, a quarant’anni di distanza. Non me ne parli… Oh, l’unica volta che avevo vinto Sanremo».

Quali porte apre la vittoria all’Eurosong Contest? Lei nel ’90 aveva già una bella carriera alle spalle.

«I tempi erano diversi, diverse le strategie della discografia, del mercato, dell’immagine. Comunque a me ha dato la possibilità di fare televisione in vari Paesi europei. E questo in un periodo in cui la musica era ancora veicolata soprattutto attraverso la radio e la tv. Poi con le mie canzoni e con la mia band ho girato il mondo, ma sicuramente l’Eurosong ha contribuito alla mia popolarità internazionale».

Più di 100 milioni di dischi venduti, quasi 60 anni di carriera, una notorietà mondiale, tra un po’ 78 primavere anagrafiche: che cosa sta progettando l’inossidabile Cutugno per questo futuro si spera definitivamente post-pandemia?

«Per prima cosa mi auguro tanta salute, poi di divertirmi ancora facendo questo lavoro che è veramente un lavoro meraviglioso. E spero di ripartire presto con il tour mondiale per promuovere il mio nuovo disco che uscirà tra breve».

23 aprile 2021

Civitanova, code e assembramenti al centro vaccinale: la mia brutta esperienza

Oltre due ore per fare il vaccino e la maggior parte del tempo passata all'esterno, sotto un gelido vento sferzante. Sembra incredibile ma è quello che ci è successo venerdì 16 aprile.

 


Dopo l'ottima esperienza nel vecchio centro di via Ginocchi, dove ho accompagnato mio padre per le due dosi, mai avrei potuto immaginare una simile situazione di improvvisazione e incapacità gestionale, in questo nuovo maxi hub. Una cosa veramente spaventosa.

Come dicevo, con mio padre siamo stati due volte nell'altro centro ed entrambe ne siamo usciti in una ventina di minuti. Avevo letto qualche critica sui social ma più che altro si trattava di attacchi strumentali da parte di esponenti politici di opposizione che hanno cavalcato la protesta di qualche imbranato che magari denunciava la presenza di scale a chiocciola, non avendo visto che un metro più avanti c'era l'ascensore. Qualcuno ha scritto che per entrare ha dovuto fare tutto il giro (non so di cosa), quando c'erano ingressi da entrambi i lati dello stabile. Qualcuno aveva lamentato assembramenti all'accettazione ma quando siamo andati noi c'era la possibilità di prendere il numero e aspettare dove volevi. Vabbè, forse chi accompagnava gli anziani aveva bisogno di un accompagnatore.

Forte di questa esperienza, venerdì scorso ero abbastanza tranquillo nell'accompagnare mia madre nella nuova sede vaccinale, invece è stato allucinante.

Siamo arrivati qualche minuto dopo le 15 e abbiamo trovato già un bella coda, tra persone da vaccinare e accompagnatori, ci saranno state una cinquantina di persone. Il problema più grande, però, non era la coda in quanto tale ma la sua immobilità. Le persone entravano con il contagocce e lì fuori faceva un freddo cane, con folate di vento tagliente. Mamma a cui basta uno spiffero per stare male per giorni, cercava di ripararsi come poteva, con il collo del giaccone alzato più che poteva e che a un certo punto ha lasciato la fila per trovare riparo dall'aria siberiana. Riparo impossibile da trovare dato che era tutto aperto e per di più il vento si incanalava sotto la rampa di fronte all'ingresso. Io ho resistito un po' di più e sono dovuto andare in macchina a prendere la cuffia.

Nel frattempo la fila non faceva una piega, a qualcuno è stata portata una sedia perché non ce la faceva più. Una signora della protezione civile è stata aggredita verbalmente da qualcuno che era arrivato al limite della sopportazione.

Alle 15:50 siamo riusciti a raggiungere l'anta della porta d'ingresso. Eravamo ancora fuori ma almeno riparati dal vento. Proprio in quell'istante arriva qualcuno dall'interno che dice di stoppare gli ingressi che dentro erano al collasso. 




Dopo una decina di minuti e la compilazione di un modulo (non previsto da quelli scaricabili), passiamo allo step successivo, la fila per l'accettazione. Anche questa abbastanza stancante ma che non saprei quantificare. Forse un quarto d'ora ma che mia madre, stanca e con il mal di schiena, ha passato su una sedia che fortunatamente era presente.




Arriviamo quindi in un grande spazio con tante sedie (ma che a un certo punto non bastavano più), in attesa della visita anamnestica. Siamo forniti di numero, ci sediamo e attendiamo con pazienza. Avevamo 3/4 numeri davanti a noi ma stranamente non chiamavano e vedevo qualcuno dei dottori stare con le mani in mano. Dico "ma perché non ci chiamano?" e solo più avanti scoprirò il motivo: i dottori non chiamavano per risparmiarci una ulteriore lunga fila in piedi in attesa di essere chiamati per l'iniezione.




Riusciamo a parlare con una dottoressa, molto gentile, che dopo le domande di rito ci fa sapere che il vaccino del giorno è solo Pfizer (ce ne fossero stati altri, in base all'esito della visita, si sarebbe scelto il più idoneo).

Ci alziamo dalla postazione e ci tocca un'altra fila, nell'attesa dell'inoculazione, ma anche in questo caso vedo personale passeggiare di qua e di là mentre noi aspettiamo. Perché non ci fanno questa cavolo di iniezioni e poi ci mandano via? Lo scopriremo dopo gli ennesimi interminabili minuti, con mamma parcheggiata su una sedia ed io in coda.

Finalmente è il nostro turno, puntura sul braccio destro e una volta che mamma si è rivestita passiamo allo step successivo: la registrazione informatica dell'avvenuta somministrazione e l'appuntamento per la seconda dose.




Entriamo in un grande salone e finalmente scopriamo il motivo della nostra interminabile fila al freddo, all'esterno: numero alla mano, abbiamo ben 28 persone prima di noi! 

La causa di tutto il casino di questo nuovo centro vaccinale è data da questo ultimo girone dantesco che blocca l'inoculazione del vaccino, dato che altrimenti scoppierebbe di gente e che quindi blocca i medici anamnestici, che a loro volta bloccano le persone all'accettazione, che a sua volta blocca le persone alla pre-accettazione e crea le file all'esterno.

Porca di quella troia, dopo un giorno, due giorni, tre giorni che la situazione è così, si prendo altri cinque computer e si mettono a lavorare altri cinque navigator, volontari, percettori di RdC, persone in cassa mobilità, in cassa integrazione, etc.

E' passata una settimana e nulla è cambiato se non in peggio. Sono passato oggi pomeriggio e ho visto che hanno fatto un nuovo sbarramento sul piazzale e che immagino essere una pre-pre-accettazione. Sempre all'aperto senza nessun riparo dalle intemperie. 

Fa veramente male al cuore vedere che soluzione al problema è di una semplicità imbarazzante ma che non si riesce a metterla in pratica, per chissà quale strano problema organizzativo. Con tutti i soldi che girano per questa vaccinazione di massa, è possibile che non si riescano a trovare dei computer e mettere a lavorare un po' di persone in più? Si possono lasciare anziani e persone fragili in attesa per due ore all'esterno. Capirei se non ci fosse alternativa ma la soluzione è alla portata di un bambino piccolo, porca puttana! Ma se proprio non si potessero aumentare le postazioni per la registrazione dell'avvenuta inoculazione, basterebbe semplicemente ridurre il numero delle prenotazioni.

Dopo due ore e una decina di minuti, alle 17:20 finalmente siamo usciti.

06 marzo 2021

Continua con lo sperpero di denaro pubblico su Alitalia, in picchiata da 20 anni e senza speranza

Cambiano i governi ma resta il disastro finanziario di Alitalia, la compagnia di bandiera di questa repubblica delle Banane, tenuta in piedi solo grazie alle continue iniezioni di soldi pubblici, con l'ultimo versamento che è sempre il penultimo e l'Europa, che interviene su tutto, dalla curvatura della banane alla dimensione delle vongole, che si gira dall'altra parte permettendo questo scempio finanziario. Una compagnia che negli ultimi 20 anni, da quando il mercato è stato aperto alla concorrenza, non è mai stata in grado di essere competitiva e che naviga a vista, con perdite di quasi due milioni di euro a giorno.



Alitalia ha alle spalle una lunghissima scia di bilanci in rosso e di sostegni con soldi pubblici. Ecco quanto è costata agli italiani


Ben 12 governi, fino a quello guidato dall'attuale premier Mario Draghi, e quasi altrettanti amministratori delegati, 11, si sono dati il cambio in questi ultimi 20 anni, mentre Alitalia consumava la sua lenta agonia, passando per l'umiliazione del delisting, innumerevoli ricapitalizzazioni e approdando infine all'amministrazione straordinaria. Un filo rosso lega questi i due decenni della compagnia in caduta libera, oggi a un passo dal consegnare parte delle attività alla newco Italia trasporto aereo, per provare a rinascere più piccola e finalmente redditizia. Un filo rosso, come la sequela ininterrotta dei bilanci, invariabilmente in perdita.

Dal 2000 a oggi la compagnia ha chiuso ogni esercizio col segno meno, cumulando tra perdite a bilancio e quelle stimate (e mai smentite) della gestione commissariale, una cifra che ormai supera gli 11 miliardi di euro. Una sola eccezione ha interrotto questa drammatica catena di bilanci, funestata da attacchi terroristici, avvento delle low cost e infine, il Covid: l'utile di 93 milioni di euro del 2002, che si deve al versamento della penale versata da parte di Klm, allora rea di aver chiuso unilateralmente un contratto di cooperazione.

Alitalia era uscita ammaccata dal disastro delle Torri Gemelle nel 2001, che aveva messo a terra e poi costretto a una vera e propria rivoluzione il settore del trasporto aereo. Nulla rispetto a quello che sarebbe accaduto 19 anni dopo con la pandemia causata dal Covid. Ma allora, era sembrato un disastro dalle conseguenze incalcolabili. La causa intentata un anno prima dall'amministratore delegato, Domenico Cempella, contro gli olandesi, aveva dato i suoi frutti in tempo perché il successore, Francesco Mengozzi, il manager dei mille giorni, potesse passare all'incasso e archiviare in utile quel solitario esercizio del 2002, regalando persino qualche effimero brivido agli azionisti di Alitalia, all'epoca ancora quotata. Non che, riportando il calendario ancora più indietro, sia andata molto meglio.

Uno studio di Mediobanca, dedicato all'Alitalia pubblica dal 1989 al 2007 (l'anno prima della privatizzazione e dell'avvento dei cosiddetti capitani coraggiosi reclutati dal governo Berlusconi) aveva messo in luce perdite per l'equivalente di 6 miliardi di euro e interventi statali, già allora, per quasi 3 miliardi di euro. Di quel brusco divorzio di fine millennio con Klm, Alitalia ha portato i segni a lungo. Sarà solo il primo di tre matrimoni falliti con partner di peso internazionale, da Air France, nel frattempo diventata proprio Air France-Klm, all'ultimo, prima del commissariamento, con l'emiratina Etihad, determinata a fare di Alitalia una compagnia «sexy», per dirla con l'allora presidente, James Hogan.

Entrata con una quota del 49%, quella massima consentita a un azionista esterno alla Comunità europea. Etihad ne è uscita nel 2017, sconfitta dal referendum sul piano di risanamento a 5 anni, che prevedeva forti tagli alle retribuzioni dei dipendenti. La fine dell'alleanza con Etihad ha di fatto consegnato Alitalia all'amministrazione straordinaria. Partita a maggio 2017, è oggi alle ultime battute. Nel frattempo ben cinque commissari si sono occupati della compagnia: Luigi Gubitosi, con Enrico Laghi e Stefano Paleari, questi ultimi affiancati poi da Daniele Discepolo, fino all'arrivo dell'ultimo, Giuseppe Leogrande, che però dal 5 marzo non è più solo.

Il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, infatti, ha voluto che per l'ultimo miglio dell'amministrazione straordinaria, Leogrande venga coadiuvato da altri due commissari, Daniele Santosuosso, ordinario di Diritto commerciale alla Sapienza, e Gabriele Fava, giuslavorista. Il suo è il profilo che più ha attirato l'attenzione, perché l'operazione avrà un costo sociale che il governo vuole provare ad attutire. I tre dovranno chiudere il capitolo finale, col passaggio di consegne alla newco controllata dal Tesoro. Lo stesso giorno della nomina dei due nuovi commissari, Giorgetti ha incontrato la vicepresidente Ue con delega alla Concorrenza, Margrethe Vestager, insieme ai colleghi dell'Economia, Daniele Franco, e dei Trasporti, Enrico Giovannini. «Un buon primo incontro», lo ha definito la portavoce di Vestager. Ma dovrà essere soprattutto produttivo, visto che la priorità del governo è consegnare le attività volo alla newco in tempo per la stagione estiva, o le low cost si prenderanno tutto.

Già nel 2016, come evidenziato da Andrea Giuricin per l'Istituto Bruno Leoni, Alitalia si trovava in seconda posizione in termini di numero di passeggeri nel mercato italiano, alle spalle di Ryanair, la prima low cost europea, e davanti a Easyjet e Vueling, «altre due low cost molto più grandi della stessa Alitalia a livello europeo». Oggi quelle stesse low cost, atterrate come tutti i vettori dal Covid, stanno già riaprendo le ali e registrano prenotazioni record. Per il futuro di Ita e quel che resta di Alitalia, davvero all'ultima chiamata, insomma, arrivare in tempo per l'estate è vitale.

Da MF-Milano Finanza, 6 marzo 2021

[Fonte]

12 febbraio 2021

Ho prenotato il vaccino online (ed è stato semplicissimo)

Mio padre, sempre aggiornatissimo tramite le notizie sullo smartphone, ieri sera mi ha chiesto di prenotargli la vaccinazione. L'ho guardato negli occhi e gli ho chiesto: sei sicuro? E lui ha confermato.

Oggi a pranzo me l'ha ricordato e nel primo pomeriggio ho cercato informazioni su come effettuare la prenotazione online. Ho googlato, aperto la pagina di uno dei giornali locali e trovato immediatamente l'indirizzo web per eseguire l'operazione: 

http://prenotazioni.vaccinicovid.gov.it

Mi aspettavo un po' di caos e problemi da click day e invece è stato tutto semplicissimo e velocissimo!

Pochi secondi di attesa e sono entrato in una pagina dove mi è stato chiesto il numero della tessera sanitaria e il codice fiscale, poi alcuni dati come il numero di cellulare e il cap e qui devo dire che la prima volta ho sbagliato (oppure non ha funzionato il sistema, a seconda di come la vogliamo vedere).

Mettendo il cap del mio paese, è uscita fuori una lista di giorni ed orari, scaglionati di ora in ora, al centro di vaccinazione di Macerata. Mi padre sarebbe anche andato (o l'avrei tranquillamente accompagnato io) ma ho voluto provare a cambiare il codice di avviamento postale mettendo quello di Civitanova e in effetti ho avuto ragione. E' uscita la lista relativa al centro vaccinazione di via Ginocchi e in due secondi ho scelto data, orario ed ho prenotato.

La conferma, oltre a che a video, è arrivata anche sul cellulare e il gioco è fatto.

















07 gennaio 2021

L'ermetismo applicato all'architettura: la micro-casa fortificata nel bosco

A prima vista può sembrare una cabina dell'Enel che ce l'ha fatta ma se devo dire la verità, a me non dispiace affatto questa particolare abitazione composta da blocchi accatastati. Dentro non posso giudicarla perché le foto nell'articolo mostrano solo due particolari marginali ma mi fido della descrizione riportata di seguito: "E' all'ultimo piano che si concentra l'intimità della micro-casa fortificata. Separati da superfici in vetro che collegano il pavimento al soffitto, tre camere da letto e un bagno si dispiegano comunicando tra di loro, tra la corposità del cemento e il calore del legno.



Ermetica fuori, emozionale dentro: la doppia anima di una micro-casa fortificata in mezzo al bosco

Otto metri per otto di base, 9,5 per altezza e 95 metri quadrati di superficie quadrata: sì, quando si parla di micro-case, le misure contano. Compatta e abitabile per definizione, la Tiny House progettata da Marte.Marte Architekten è tra gli esempi più recenti di questa particolare tipologia di costruzione che, ideata per popolare lo spazio all'insegna del nomadismo, riflette le pratiche più attuali del nuovo abitare. Monolitica, come se fosse scolpita nella pietra, l'edificio disegnato dal team austriaco di Feldkirch si erge come una piccola torre nel mezzo di una romantica radura nel bosco. Simile a una fortezza, dall'esterno appare così: ermetica e introversa. Mentre i blocchi accatastati uno sopra l'altro lasciano aperto il dialogo tra dentro e fuori attraverso le geometriche fessure in vetro, dall'interno, la struttura spaziale si apre allo spettatore con grande emozione.




Bordata da soffitti lisci e materici pavimenti in legno, la casa appare all'esterno spigolosa e ruvida. Una volta varca la soglia di Tiny House, le pareti massicce in calcestruzzo isolante creano infatti un'inconfondibile sequenza di stanze incastonate su ogni livello di dimensioni diverse. La composizione spaziale che ne risulta è come una scultura morbida penetrata a tratti da profonde incisioni che, se ben osservate, rivelano all'occhio più attento la foresta circostante. A collegare i tre piani abitativi, disposti uno sopra l'altro, c'è poi una piccola scala a chiocciola che, dall'ingresso che abbraccia anche un studio al centro, conduce direttamente al livello superiore dove le tre stanze formano una straordinaria zona giorno. Le ampie pareti in cemento armato suggeriscono infatti un'atmosfera abitativa introversa e protettiva che si interrompe solo nelle aperture finestrate che rivelano viste differenziate dello spazio naturale al di fuori.




Ma è all'ultimo piano che si concentra l'intimità della micro-casa fortificata: separati da superfici in vetro che collegano il pavimento al soffitto, tre camere da letto e un bagno si dispiegano comunicando tra di loro. Tra la corposità del cemento e il calore del legno, le installazioni tecniche di Tiny House sono ridotte al minimo: se i LED emettono una luce simile a quella di una candela, la trasparenza del vetro è il tratto d'unione tra la casa e la natura circostante.




[Fonte]


02 gennaio 2021

Addio a don Ennio, sacerdote missionario

Un breve ricordo di zia Enrica sul fratello don Ennio, scomparso lo scorso 30 dicembre a causa del Covid. Proprio ieri in famiglia stavamo calcolando il tempo intercorso tra un suo precedente ricovero di alcuni giorni per controlli e il manifestarsi dei sintomi del coronavirus e purtroppo sono perfettamente compatibili con un contagio all'interno dell'ospedale.

Zio utilizzava spesso Skype per contattarci, a volte con semplici messaggi ma quasi sempre con videochiamate, immancabili per compleanni e onomastici, o semplicemente per sapere come stavamo. Si preoccupava della mia situazione lavorativa e ogni volta mi chiedeva se ci fossero delle novità, come il 12 novembre, l'ultima volta che ci siamo visti attraverso lo schermo del computer. 




L'ultimo di noi che l'ha sentito su Skype pochi giorni prima del manifestarsi in pieno della malattia, ha detto che chiedeva preoccupato del nostro stato di salute, dopo alcuni casi di Covid in famiglia, ed era molto raffreddato, con tosse. Purtroppo non era un brutto raffreddore ma i sintomi già evidenti della terribile malattia che l'ha portato in paradiso.

Aveva compiuto ottant'anni lo scorso 8 settembre, con una grande al ristorante con tutti i parenti e prima di tornare a Roma, mi aveva chiesto se potevo inviargli foto e video dell'evento, da poter poi condividere. Gli resi la cosa molto semplice, girandogli semplicemente un paio di link, dove avevo messo ridimensionati e compressi, foto e video del pranzo e della messa. A marzo 2021 avrebbe festeggiato i cinquant'anni di sacerdozio.

Immensa tristezza.


Aveva 81 anni, ha lottato fino all'ultimo contro il virus. Il ricordo della sorella: «Era innamorato del Brasile, lo considerava una seconda patria» 

Se n'è andato a 81 anni il sacerdote missionario, don Ennio Verdenelli, di Montecosaro. Aveva problemi di salute da molti anni: ricoverato a Roma, è rimasto poi contagiato dal Covid, che rapidamente se l'è portato via. 

Sentita la vocazione a 21 anni, dopo un percorso dalle suore laiche a Passo di Treia e fatta l'università a Roma, don Ennio ha dato la sua vita per la missione, «amava il Brasile e i brasiliani amavano lui - lo ricorda la sorella, Enrica -, per lui era una seconda patria. Raccontava spesso del viaggio che fece per raggiungere il Brasile, ci impiegò un mese, a bordo di una nave mercantile. Appena diventato sacerdote, infatti, ha espresso subito il desiderio di partire in missione. Era innamorato di quella terra, anche se le difficoltà non mancavano. «Ci raccontava che per andare da una cappellina all'altra, spesso ci voleva moltissimo e bisognava passare per strade impervie. Ma a lui piaceva». 

I problemi di salute «sono cominciati diversi anni fa - spiega la sorella - e gli ultimi anni li ha trascorsi a Roma. Di recente, si è ricoverato per altri problemi, ma ha preso il Covid e si è aggravato rapidamente. E' stato portato al Covid hospital, ha dovuto indossare il caschetto per respirare, non riesco nemmeno a immaginare quanto abbia sofferto. Poi, purtroppo, è stato intubato. Hanno provato anche con una tracheotomia, per salvarlo, ma non c'è stato nulla da fare». La sera del 30 dicembre, il suo cuore ha smesso di battere. 

Un pensiero va agli operatori sanitari che si sono presi cura di don Ennio negli ultimi giorni della sua vita: «Devo dire che il personale è davvero in gamba, dall'ospedale ci chiamavano tutte le sere per darci notizie, in qualche modo ci siamo sempre sentiti vicini a lui, per quanto possibile in una situazione simile», riferisce la sorella Enrica. 

Quest'anno, don Ennio non se la sentiva di andare a trascorrere le feste in famiglia: prima che si ammalasse, «ci eravamo anche offerti di andare a prenderlo, ci avrebbe fatto tanto piacere. Ma lui aveva detto con l'emergenza virus in corso non se la sentiva». 

II 7 gennaio alle 10, nella chiesa dell'Assunzione di Maria di Tor Vergata, ci sarà il funerale di don Ennio, poi anche Montecosaro potrà salutare il suo sacerdote per l'ultima volta: sarà seppellito, come era nei suoi desideri, nel cimitero di Montecosaro. Don Ennio lascia i fratelli e sorelle Enzo, Enrica, Adriana, Silvana e Giuliana, e tantissimi nipoti e pronipoti. 


IL RESTO DEL CARLINO - SABATO 2 GENNAIO 2021