“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Forse quando i padri costituenti hanno scritto il comma terzo dell’articolo 27 della nostra costituzione avevano in mente un’idea di carcere vicina a quella che hanno realizzato i norvegesi con la prigione di Bastøy e quella di Halden. Due penitenziari definiti a cinque stelle e nei quali si sogna di entrare anziché evadere.
Bastøy, il carcere senza sbarre dove i detenuti sognano di entrare
Quella che porta all’isola di Bastøy è una barca piccola, bianca. Tra l’interno e l’esterno si danno il cambio tre o quattro uomini con addosso delle giacche gialle. Sorridono mentre intorno non c’è che vento freddo e silenzio. Dopo pochi minuti, forse un quarto d’ora, la barca attracca. Alcuni uomini del personale staccano, il loro turno è finito. È arrivato il momento di tornare a casa. Solo che non stiamo parlando di marinai, ma di detenuti, e la loro non è una semplice casa ma una delle 88 abitazioni, rigorosamente in legno, che costituiscono questo singolare carcere norvegese, a 75 chilometri da Oslo.
A Bastøy non si arriva per caso. E questo non ha niente a che vedere col fatto che si tratta di un’isola di appena due chilometri quadrati, persa in un fiordo norvegese. Per arrivare qui, sulla solita barca che porta i visitatori, c’è la lista d’attesa. Tom Eberhardt, direttore del carcere, riceve circa 30 richieste al mese. «Non possiamo accettarli tutti» spiega. Questa non è soltanto una decisione dello staff. Per arrivare qui bisogna avere dei requisiti particolari. Innanzitutto, aver già scontato la maggior parte della pena perché sull’isola di Bastøy, come spiega Tom, si possono passare al massimo cinque anni, ma soprattutto devono avere un forte desiderio di migliorarsi e la volontà di lavorare su se stessi.
I 115 detenuti che sono qui hanno scritto una lettera motivazionale. Non importa quale reato abbiano commesso e quanto grave sia stato. Da quando mettono piede sopra questa isola, per loro e per chi li segue e li sorveglia, il passato non conta più. Esistono solo presente e futuro. «Io non posso fare nulla per quello che sono stati e per ciò che hanno commesso – dice Tom -. Posso però fare qualcosa per quello che sono e che saranno domani».
Quella che porta all’isola di Bastøy è una barca piccola, bianca. Tra l’interno e l’esterno si danno il cambio tre o quattro uomini con addosso delle giacche gialle. Sorridono mentre intorno non c’è che vento freddo e silenzio. Dopo pochi minuti, forse un quarto d’ora, la barca attracca. Alcuni uomini del personale staccano, il loro turno è finito. È arrivato il momento di tornare a casa. Solo che non stiamo parlando di marinai, ma di detenuti, e la loro non è una semplice casa ma una delle 88 abitazioni, rigorosamente in legno, che costituiscono questo singolare carcere norvegese, a 75 chilometri da Oslo.
A Bastøy non si arriva per caso. E questo non ha niente a che vedere col fatto che si tratta di un’isola di appena due chilometri quadrati, persa in un fiordo norvegese. Per arrivare qui, sulla solita barca che porta i visitatori, c’è la lista d’attesa. Tom Eberhardt, direttore del carcere, riceve circa 30 richieste al mese. «Non possiamo accettarli tutti» spiega. Questa non è soltanto una decisione dello staff. Per arrivare qui bisogna avere dei requisiti particolari. Innanzitutto, aver già scontato la maggior parte della pena perché sull’isola di Bastøy, come spiega Tom, si possono passare al massimo cinque anni, ma soprattutto devono avere un forte desiderio di migliorarsi e la volontà di lavorare su se stessi.
I 115 detenuti che sono qui hanno scritto una lettera motivazionale. Non importa quale reato abbiano commesso e quanto grave sia stato. Da quando mettono piede sopra questa isola, per loro e per chi li segue e li sorveglia, il passato non conta più. Esistono solo presente e futuro. «Io non posso fare nulla per quello che sono stati e per ciò che hanno commesso – dice Tom -. Posso però fare qualcosa per quello che sono e che saranno domani».
Riflettori
Tom, capelli biondi e occhi di ghiaccio, come quello che ricopre le strade dell’isola, lavora qui da due anni, dopo una ventina trascorsi come direttore in un carcere “chiuso”. Ci mostra l’ufficio e ci offre una tazza di caffè. La prima di molte che berremo, durante la giornata. «Alcuni media hanno mostrato le immagini dei detenuti al sole, d’estate, a nuotare nel lago – continua Tom -. Hanno parlato di hotel di lusso, di prigione a cinque stelle. Ma nessun giornalista è mai venuto d’inverno, a vedere che cos’è quest’isola per gli altri sei mesi dell’anno». E’ bianca di neve, desolata, fredda.
In cambio del cellulare, requisito all’ingresso, solo un badge di riconoscimento e alcune informazioni sul carcere, nero su bianco, scritte da un detenuto, di sua iniziativa, nell’aprile 2013. «Dico no alla maggior parte delle richieste che ricevo per venire qui – dice Tom -. Non voglio far diventare questo posto un circo mediatico. I ragazzi hanno diritto alla loro privacy. Mi rendo conto che sia una realtà particolare da raccontare, ma scelgo io di volta in volta da chi». Forse coglie le nostre espressioni tronfie, perché aggiunge: «Ero davanti al pc quando mi avete inviato la mail. Un caso». Sorride. E anche noi.
Contrappasso
A Bastøy ci sono 115 fortunati dei 3.872 detenuti norvegesi. Non uno di più, non uno di meno. Il numero è mantenuto costante e la struttura costa allo Stato circa 8 milioni di euro l’anno, su un investimento totale nelle carceri di circa due miliardi. L’Italia ne spende tre, ma di detenuti ne ha 53mila.
Tom cammina rapido e scattante in mezzo ai campi silenziosi, come un padrone di casa che ne custodisce ogni segreto. Ogni tanto qualche detenuto ci passa accanto, in sella a una bicicletta. «Se le sono comprate da soli, coi soldi guadagnati grazie al loro lavoro» spiega Tom. La neve continua ostinatamente a macchiare alcune parti del grande prato. Guardando in giro si possono distinguere la chiesa, il fienile, l’edificio dello staff. E tutt’intorno le casette gialle, rosse, pallide, con all’esterno due o tre bici.
Conosciuta come “isola del diavolo”, Bastøy è stato un riformatorio per ragazzi dal 1900 al 1970: buona parte della “cattiva gioventù” norvegese veniva rinchiusa qui in attesa della maggiore età o dello sconto della pena. Era un posto famoso per le modalità di detenzione piuttosto brutali.
Oggi lo è esattamente per il motivo opposto: dal 1988 è una prigione di “minima sicurezza”, come viene definita. E dal 2006 è quella che conosciamo oggi. I detenuti vivono sull’isola una vita normale. O meglio, l’apparente surrogato di un’esistenza comune. Sono liberi, ma devono restare dentro casa dalle 23 alle 7.
Autonoma, ecologica, economica. Umana
Bussiamo a una porta bianca. Ci apre un uomo massiccio, lunghi capelli biondi e un sorriso rassicurante. Il suo nome è Rune, ha 39 anni ed è arrivato qui da poco, dopo aver passato cinque anni in un carcere di massima sicurezza. Non ha nessun problema a spiegare perché si trovi lì: «Sono entrato in una banca e ho fatto una rapina a mano armata». Nel soggiorno, la stufa è alimentata dal legno dell’isola raccolto dai detenuti. «Qui tutto è fatto di legno, del nostro legno» sottolinea Tom Eberhardt. Un fatto importante dato che, grazie al consumo dei prodotti dell’isola – dalle verdure alle pelli di mucca – , quella di Bastøy è una prigione ecologica: la terra viene lavorata con i cavalli e i rifiuti sono riutilizzati come concime o per soddisfare parte del fabbisogno energetico. Fatta eccezione per il pulmino dei visitatori e alcuni trattori, di auto qui non se ne vedono. Le bici, invece, ovunque.
Rune lavora sulla barca ma oggi non è di turno. In un’ora di chiacchierata ci racconta le sue passioni, tipo quella per le moto, ma anche le sue idee sul carcere e sulla giustizia. La nostra conversazione viene scandita dal rumore delle tazze che si poggiano sul tavolo. Imbracciava fucili con disinvoltura per rapinare le banche. Ora armeggia con le stoviglie. «I norvegesi sono dei gran bevitori di caffè, senza questo liquido scuro non andremmo da nessuna parte» dice Rune, sorridendo. Da quando è a Bastøy, per lui è iniziata una nuova vita: «Mi è venuta la voglia di studiare e adesso mi mancano due anni per diventare meccanico, il mio sogno». Però, ci racconta mentre i suoi occhi si abbassano, lui è uno che ha già pagato per le sue scelte. Soprattutto con gli affetti: «Come fai a dire alla tua ragazza che passerai anni e anni in prigione? Non puoi». Se l’avesse ancora, potrebbe venire a trovarlo qui una volta alla settimana e potrebbero restare soli, senza sorveglianza. «I familiari possono fermarsi anche di notte? – chiediamo a Tom che non si scandalizza – Ci stiamo pensando, dobbiamo solo attrezzarci».
Quotidianità isolana
Non tutti hanno voglia di parlare né tanto meno di raccontarci cosa hanno fatto per finire in prigione. Per alcuni, poi, «gli animali sono meglio degli umani». E quest’isola è il posto ideale per prendersi cura del bestiame tra mucche, cavalli, pecore e agnelli. Entrando nella stalla, ci imbattiamo in un ragazzo di poco più di vent’anni. È di poche parole, preferisce accarezzare quelle che sente come le “sue” mucche. Le conosci una per una, chiediamo. Sì, ci risponde in modo quasi imbarazzato. «Alcune le ho viste nascere, per me sono come una famiglia e sarà difficile lasciarle» aggiunge. In quel momento scopriamo che, per questo ragazzo, è arrivato l’ultimo giorno in questo carcere di “minima” sicurezza.
Minima perché di sbarre non ce n’è nemmeno l’ombra. Quindici minuti dopo la fine del coprifuoco, inizia la giornata di questi detenuti-lavoratori che, divisi tra barca, cucine, negozio, cura degli animali ed equipe tecnica, guadagnano circa 8 euro per turno. La prigione assicura inoltre 24 euro extra ogni settimana da spendere per colazione, pranzo e magari una scheda telefonica da usare nelle cabine che hanno a disposizione a orari predefiniti. Sull’isola lavorano 69 persone tra guardie e personale. Solo cinque di loro si fermano la notte e non sono armati. In fondo, perché scappare da qui? D’estate capita di scorgere i detenuti in acqua. «Uno di loro faceva il giro completo dell’isola a nuoto – ci racconta Tom -, nuotava e basta». In fondo, da qui chi vorrebbe fuggire?
A Bastøy si può e si deve lavorare e studiare. Essere liberi non significa poltrire. I prigionieri possono dare il loro contributo, retribuito, in cucina, nella serra, con gli animali, nella falegnameria. Possono svolgere attività come giardinieri, meccanici o addetti alle pulizie. O ancora, diventano uomini di mare al timone del traghetto. La scuola, invece, è un dipartimento distaccato di quella cittadina di Horten. I detenuti che non hanno completato il primo grado di istruzione devono obbligatoriamente farlo, se invece non hanno finito l’ultimo grado scolastico (dai 16 ai 18 anni in Norvegia) possono portarlo a termine scegliendo diverse discipline tra cui informatica, lingue straniere, agraria, sociologia, matematica e musica. Eppure, anche se il tempo scorre calmo, sull’isola di Bastøy non tutto è rosa e fiori. Come in ogni carcere, anche qui ci sono dei detenuti che non vengono ben visti. In particolare chi ha fatto del male a donne e bambini. Bastoy è un carcere diverso anche per questo: perché accoltellare il “nemico” se ci si può limitare a ignorarsi l’un l’altro? «Non posso costringermi a stare con chi non mi piace» dice Karl, 26 anni, condannato per una aggressione, che proprio non accetta di dover scontare gli stessi anni di uno stupratore o di un pedofilo. «Non esattamente gli stessi – si riprende – ma poco ci manca».
Riabilitare, non castigare
Su quest’isola sembra quasi di respirare la calma e la gentilezza dei popoli scandinavi. Eppure la maggior parte dei suoi abitanti ha infranto, almeno una volta nella vita, la legge. A Bastøy non mancano né gli assassini né – come ci ha ricordato Karl – gli stupratori o i pedofili. Eppure non è il passato ma il futuro a rendere questi detenuti speciali: numeri alla mano, l’84% di chi passa per Bastøy non infrangerà mai più la legge. Infatti il tasso di recidiva, secondo un istituto norvegese di ricerca in criminologia (il Krus), è di appena il 16% . Un niente se confrontato alla percentuale europea (70/75%) e quella americana, che arriva addirittura a sfiorare l’80%.
Se negli Stati Uniti esistono prigioni come il Tent Camp, dove i detenuti vivono in delle tende e vengono esposti alle più varie intemperie, a Bastoy accade tutto il contrario. Come spiega Tom Eberhardt, «noi siamo qui per formare dei cittadini, dei vicini di casa. Un giorno queste persone usciranno di prigione e saranno libere. Tu chi vorresti come ipotetico vicino di casa, nel tuo futuro, per te e la tua famiglia? Un uomo ristabilito e reintegrato nella società oppure un uomo ancora malato, arrabbiato, che è stato rinchiuso per anni in condizioni incivili?». L’argomentazione del direttore è convincente. E i numeri gli danno ragione.
Una sfida per il futuro
Per Marianne Vollan, direttrice del servizio correzionale norvegese, la domanda è questa: come far scontare ad un detenuto la pena in modo che si riduca al minimo la probabilità che torni a delinquere? Con l’attenzione alla sua riabilitazione sociale e al principio della “normalità”: la vita in prigione deve essere il più simile possibile a quella fuori, con tutti i suoi diritti inviolabili. La privazione della libertà è già di per sé la punizione. Non importa se non ci sono le sbarre: i detenuti non si dimenticano mai di essere in carcere.
Per capire il sistema norvegese, però, bisogna prima di tutto aver presente che qui l’ergastolo non è previsto. Al massimo si può venire condannati a 21 anni di reclusione. Questo perché in quello che definiamo “criminale” viene prima di tutto vista una persona che prima o poi tornerà a fare parte della società norvegese. Per cui, un cittadino. Per questo pare strano, seduti intorno al fuoco con in mano un panino, trovarci a parlare di Anders Breivik, responsabile della strage di Utøya che, nel 2011, costò la vita a 77 persone. Per lui no, non basteranno quei 21 anni. Il giudice può comminare 5 anni aggiuntivi se il detenuto è ritenuto ancora socialmente pericoloso. Tom ci dice che a Breivik verranno comminati di sicuro. Di cinque anni in cinque anni finirà per scontare il primo ergastolo della storia norvegese.
In questa isoletta spersa a 75 km a sud di Oslo, a bordo di quella famosa barca bianca, si arriva per (re)imparare il rispetto dell’altro, degli animali e della natura. Al timone ci sono dei moderni Caronte che, al contrario della creatura dantesca, traghettano verso una nuova vita. Alle spalle ci si lascia l’inferno, i guai, le sbarre e le scelte sbagliate. Lo sguardo è rivolto avanti, verso quell’isola che profuma di fiducia e di libertà. Non è un paradiso a cinque stelle, ma una porta per il futuro. Colma di speranza, per quelli che ci entrano.
Twitter @AlessandraSway e @quietdisorder
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