09 aprile 2019

Volontario italiano nell'Isis: «Voglio tornare a casa» - VIDEO

Mounsef Hamid Almukhaiar volontario italiano di origine marocchina militante di Isis intervistato in un carcere curdo nel nord-est della Siria



Siria, il combattente italiano di Isis nel carcere curdo: «Voglio tornare in Italia»

SIRIA NORD-ORIENTALE - Diciamo subito che è difficile credergli. Afferma di aver raggiunto i ranghi di Isis in Siria nel gennaio 2015, «prima degli attentati di Parigi e in Belgio». Vero. Ma poi dimentica che già nel 2014 erano apparsi sulla rete i video crudeli delle decapitazioni dei giornalisti e degli altri ostaggi occidentali. Isis già da tempo diffondeva la sua propaganda inneggiando alla «guerra santa contro i crociati», minacciava di lanciare kamikaze contro il Vaticano, arruolava promettendo sesso libero con le «schiave yazide», mostrava trionfante i massacri vergognosi dei soldati iracheni prigionieri a Mosul. E ora, che ne pensa degli ultimi sviluppi? «Isis è battuto. Dopo la sua ultima sconfitta militare nel villaggio di Baghouz non può più rinascere come prima. Anche se ci sono indubbiamente ancora tanti suoi militanti pronti a riprovarci».

E’ complesso intervistare un detenuto in carcere. Ovvio che cerchi di cancellare le sue colpe, ma non troppo. Sa che ogni sua dichiarazione può aiutarlo, però anche giocargli contro. Deve apparire credibile. Così anche lui minimizza, la mette sul dramma personale. «Sì, ma quelle cose dei video di Isis non le guardavo. Non le conoscevo(!). Io volevo combattere per il Califfato. Ero confuso, cercavo alternative. Mio padre mi aveva lasciato che avevo meno di 4 anni in Marocco. E quando subito dopo immigrai con mia mamma in Italia ebbi con lei rapporti difficili. Sono stato bene con una zia in Piemonte e con don Claudio Burgio alla sua comunità Kayròs di Piola, alla periferia di Milano. Ho lasciato le superiori di Cimiano al primo anno e sono partito volontario dopo un lavoretto di un mese in nero a Lambrate nel gennaio 2015 come muratore. Avevo cominciato a guardare i video di Isis nel novembre 2014, un mese dopo ero già radicalizzato pronto a partire. All’aeroporto di Istanbul incontrai una ventina di volontari europei come me. Un militante egiziano venne a prenderci per scortarci in Siria. Ricordo che rimasi stupito quando chiese a bruciapelo se c’erano volontari kamikaze e tre o quattro tra noi si dissero subito disponibili. Capii presto di essere entrato in un inferno. Il mio comandante in guerra era Abu Kaswara, un marocchino di 35 anni: incitava i sunniti a vendicarsi. La prego qui in cella si sta male, sono ferito, ho la gamba sinistra spezzata da una bomba, voglio tornare in Italia con mia moglie incinta e i nostri due bambini» dice, prima quasi sussurra, poi domanda, implora.

Però, davvero, è difficile credergli. Chiunque nella sua posizione probabilmente farebbe come lui. Monsef Hamid Mkhayar, nato 21 anni fa a Casablanca (oppure 23 come riporta il passaporto, che lui diminuisce per dimostrare che era minorenne al momento della venuta in Siria?) è ovviamente in guai serissimi. Così getta acqua sul fuoco, evita le domande difficili. Hai combattuto? Dove? «Ho combattuto poco. Ma dove non posso dirlo, se no per me va male. Lo rivelerò nel futuro, non ora» spiega. Poi viene fuori che si è battuto ad Aleppo, dove ha perso la vita Tarik Abulala, un altro marocchino italiano suo vecchio compagno di scuola. Erano venuti assieme, incoraggiandosi a vicenda. Ha partecipato ai combattimenti anche nella zona di Raqqa, a Hassakeh, lungo l’Eufrate. Insomma era un fante di Isis a tutti gli effetti. Ha fucilato, terrorizzato, decapitato, torturato? Non risponde. Ne ha viste di tutti i colori, ha rischiato la morte di continuo e ha scelto di vivere. Del resto cosa altro potrebbe fare? Isis è a pezzi. Confida che sarebbe anche stato arrestato per una settimana dai suoi compagni perché non voleva più andare al fronte. Non siamo i primi giornalisti che vede dalla sua cattura da parte delle fanterie curde il 17 gennaio scorso a pochi chilometri dalla sacca di Baghouz. Il suo caso è noto in Italia. Anche Don Burgio ha pubblicamente parlato di lui.

I curdi chiedono che non si riveli il nome e il luogo della prigione dove lo intervistiamo per quasi due ore. «Potremmo venire attaccati dai suoi compagni», spiegano. Lui vorrebbe incontrare gli agenti dei servizi italiani. «So che gli 007 europei stanno interrogando noi prigionieri dei loro Paesi. Io non ho visto nessuno degli italiani. Se venissero sarebbe almeno un buon segno, potrei iniziare la pratiche per il rimpatrio e cercherei di fare venire anche mia moglie diciassettenne Salwa Omar Muslim, che è di origine curda. Lei, la sua famiglia e i nostri due bambini sono stati la salvezza in questo inferno» continua. Così viene fuori che Salwa e i figli stanno con altri 72.000 famigliari dei jihadisti nel gigantesco campo di Al Hol, non troppo distante da qui. Un incubo per le sentinelle curde. «Se andate laggiù per favore cercatela per me. E’ da quando siamo stati catturati che non la sento. Qui sono totalmente isolato in una cella di venti persone, dove si parla solo arabo, tedesco e francese. Non abbiamo telefoni, nessuna notizia. So solo che Baghouz è stata presa dai curdi». Lui stesso ammette di essere fortunato. «Se fossi stato catturato dai lealisti di Bashar Assad, assieme ai loro alleati russi e iraniani ci avrebbero uccisi subito. Voi non avete idea che bestie siano! Negli ultimi tempi le loro artiglierie sparavano ogni volta che individuavano assembramenti di civili. Io sono stato colpito mentre viaggiavo in moto vicino a un mercato. Sono salvo per miracolo».

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