29 settembre 2016

Andriy Shevchenko ne fa quaranta

Questa volta non parliamo di gol ma di anni, che questo campione indiscusso compie proprio oggi, 29 settembre, affollato da diverse altre ricorrenze illustri (basti citare, tra gli altri, il suo ex presidente Berlusconi che ne fa 80).

Non sono mai stato un tifoso accanito ma negli anni che lui era al Milan, posso dire di aver goduto immensamente per quella serie infinita di vittorie e trofei conquistati. In uno dei miei tanti viaggi a Kiev, sono entrato anche nello stadio dove Andriy è nato calcisticamente, quello della Dynamo, e sono addirittura sceso in campo, calpestando lo stesso prato dove questo campione ha giocato centinaia di partite, sedendomi perfino sulla panchina.

A seguire un video con i suoi gol più belli ed il lungo articolo celebrativo della Corriere della Sera.



 
I 40 anni di Andriy Shevchenko, l’ucraino che fece sognare il Milan

Arrivato come «anti-Ronaldo», l’attaccante fa fatto innamorare i tifosi del Diavolo. Sette stagioni (più una) fatte di gol, tante luci ma anche qualche momento negativo

 
 
Ronaldo, quello brasiliano, era più veloce e più bravo palla al piede. Vieri più potente. Inzaghi aveva un maggiore senso del gol. Trezeguet in area era più spietato. Andriy Shevchenko, però, aveva tutto. La sua eccellenza stava nel non eccellere in maniera lampante in qualcosa. Lo scatto e la tecnica non erano quelli brucianti e abbacinanti del «Fenomeno»; la forza non era quella poderosa e taurina di «Bobone»; l’istinto da goleador non raggiungeva i livelli mistici ed estatici che toccava «Superpippo»; davanti alla porta non aveva l’elegante e raffinato cinismo di «Trezegol». «Sheva» non era forse il numero uno in qualche particolare aspetto fisico o tecnico, ma nell’insieme generale delle caratteristiche del centravanti a cavallo di fine anni Novanta e primi anni del Duemila nessuno ha raggiunto la completezza e l’armonia del campione ucraino.

L’attaccante totale

Se non hai un 10 in pagella magari non vieni chiamato «genio», ma se hai 9 in tutto il resto puoi realizzare qualunque cosa. Come faceva lui sui campi da calcio nei suoi anni d’oro, quelli della prima esperienza alla Dinamo Kiev (1994/1999) e della prima parentesi al Milan (1999-2006): segnare di destro, di sinistro, di testa, al volo, facendo 60 metri palla al piede, tirando da 25 metri, smarcandosi nell’area piccola, dribblando i difensori in un fazzoletto, bruciandoli in progressione, tirando una punizione o un rigore. Shevchenko compie 40 anni, ha appeso le scarpe al chiodo da qualche tempo per intraprendere la nuova carriera di allenatore, attualmente come commissario tecnico dell’Ucraina, dove lo assiste da vice un’altra gloria rossonera, Mauro Tassotti. Le pagine di una carriera in panchina sono ancora tutte da riempire. Qui, però, si raccontano quelle già scritte e vergate dai suoi tacchetti sui ghiacciati campi dell’Ucraina nei primi anni di carriera e sul prato verde (ogni tanto spelacchiato e da «rizollare») di San Siro, degli stadi italiani e di quelli di tutta Europa nei quattro/cinque anni dove è stato uno dei due/tre migliori attaccanti al mondo.

L’anti-Ronaldo

«Non è un brasiliano però, che gol che fa/ Il “Fenomeno” lascialo là, qui c’è”Sheva”!». Il coro che la Curva Sud di San Siro, l’angolo del tifo milanista più caldo, dedica nell’estate 1999 ad un giovane Andriy Shevchenko appena arrivato dalla Dinamo Kiev racchiude molto più di quel che le parole esprimono. Il Milan è campione d’Italia, ha vinto lo Scudetto 1998/1999, quello forse più inaspettato della sua storia rimontando 7 punti in 7 giornate a una Lazio che sembrava lanciata verso il traguardo. Quella squadra, allenata da Alberto Zaccheroni, giocava con un 3-4- 3 divertente e ondivago, trasformatosi in un 3-4- 1-2 nelle ultime 7 partite quando, c’è chi dice su diktat presidenziale di Berlusconi, Boban fu schierato dietro le due punte. Quel Milan era una squadra forte ma non era il Milan di Sacchi o quello di Capello, e nemmeno il Milan di Ancelotti che era ancora di là da venire. C’erano campioni (capitan Maldini in testa) e ottimi giocatori, e anche qualche gregario. In attacco, però, nonostante figure come Bierhoff e Weah, ormai agli ultimi guizzi, si sentiva la mancanza di qualcuno che potesse in qualche modo bilanciare la sfolgorante meraviglia che sull’altra sponda del Naviglio Luis Nazario da Lima, in arte Ronaldo, offriva ogni partita ai palati e agli occhi dei tifosi interisti e di tutti gli amanti del pallone. Il coro della Curva Nord dedicato al «Fenomeno», pallone d’oro del 1997 a soli 21 anni, trasuda tutto l’orgoglio e il compiacimento dei tifosi nerazzurri verso il giocatore brasiliano che da due anni milita nell’Inter: «Ooh il “Fenomeno”, il “Fenomeno”, ce l’abbiamo noi/ e sono c***i tuoi!». Ecco che l’arrivo di Shevchenko, nella mente e nei cuori dei milanisti, deve in qualche modo cercare di colmare questo piccolo complesso di inferiorità da attaccante da osannare. E Sheva, coetaneo di Ronaldo (nato soli sette giorni prima di lui) ci riesce, in un modo differente ma altrettanto emozionante rispetto al funambolo brasiliano, che purtroppo inizia il suo calvario fatto di infortuni a catena che, di fatto, non gli fa giocare più una stagione intera nell’Inter: la lesione del tendine rotuleo nel novembre 1999, seguita dalla drammatica rottura dello stesso dopo sei minuti della partita di andata della finale di Coppa Italia a all’Olimpico, nell’aprile 2000, contro la Lazio.

Le «sliding doors» tra Sheva e il Fenomeno


Le porte scorrevoli del destino impediscono però all’epica di farsi realtà: Shevchenko e Ronaldo non si sono mai affrontati sul campo in un derby a San Siro: al primo, possibile scontro, (derby di andata del 1999/2000) segnano tutti e due ma, incredibilmente, non sono mai contemporaneamente in campo: Shevchenko all’inizio è in panchina e Ronaldo, che sblocca il risultato con un guizzo a metà primo tempo, viene espulso al 30esimo per una gomitata al difensore argentino del Milan Ayala. Sheva entra a metà ripresa al posto di uno spento Bierhoff e in pochi attimi rivitalizza l’attacco rossonero con un tunnel a Javier Zanetti, un colpo di testa che centra la traversa e un gol fortunato e fortunoso su rimpallo che a poco più di un quarto d’ora dalla fine dà il pareggio al Milan, che vincerà all’ultimo con una zuccata di Weah su calcio d’angolo. Da quella serata, la carriera di Shevchenko al Milan decolla, mentre quella di Ronaldo in nerazzurro non raggiungerà mai più le vette della stagione di grazia 1997/1998, in cui il Fenomeno delizia San Siro e il mondo intero trascinando l’Inter al secondo posto dietro la Juve (nel campionato delle furenti polemiche per il famoso scontro Ronaldo-Juliano nel decisivo Juventus-Inter) e alla vittoria della Coppa Uefa contro la Lazio nella finale di Parigi. Le porte scorrevoli del destino faranno poi in modo che i due si sfiorino nuovamente, questa volta nell’essere compagni di squadra: prima le voci di un trasferimento di Sheva al Real Madrid nell’autunno 2002, dove Ronaldo si è trasferito nell’estate precedente. Poi anni dopo: nel gennaio 2007 Ronaldo arriva al Milan. Qualche mese prima Shevchenko si è trasferito al Chelsea, scatenando il primo vero trauma derivante da una cessione pesante del Milan berlusconiano. Ronaldo al Milan arriva un po’ bolso e non in perfetta forma, ma riesce comunque a segnare un buon numero di gol (9 in 20 partite) nella stagione e mezzo in cui rimane nella rosa del Milan, anche questa esperienza segnata da tanti e maledetti guai fisici che fanno scadere il suo contratto il 30 giugno 2008. Poche settimane dopo, in quell’estate, dal Chelsea torna in prestito il figliol prodigo Shevchenko che, dopo due stagioni a Londra costellate molto più da momenti amari che da attimi di gioia, sceglie di provare a tornare lì dove ha dato il meglio di sé. Anche questa volta, il fato non vuole l’incontro tra il brasiliano e l’ucraino, che «non è brasiliano, però che gol che fa».

Il colonnello Lobanovski e la disciplina militare alla Dinamo

Nel 1998, quando Ronaldo a neanche 22 anni è nel momento più sfavillante della sua carriera, l’allora allenatore della Dinamo Kiev, il mitico decano del calcio sovietico e poi ucraino Valeri Lobanovski, detto «il Colonnello», dice che non avrebbe mai e poi mai scambiato Ronaldo con Shevchenko. Il motivo? «Anche quando non segna, Shevchenko gioca con la squadra». Un’affermazione che fa magari sorridere, ma che racchiude tutto il senso del grande lavoro che Lobanovski ha fatto su Shevchenko, che in tutta la sua carriera non ha mai smesso di lodare e ringraziare il suo primo grande maestro di calcio e di vita, che alternava bastone e carota per far crescere un grande giocatore. Pochi giorni dopo la conquista della Champions League col Milan, nel maggio 2003, vola a Kiev con la «coppa dalle grandi orecchie» per omaggiare la statua dedicata a Lobanovski, scomparso improvvisamente, un anno prima, all’età di 63 anni. Quando nel gennaio 1997 Lobanovski torna alla Dinamo Kiev come allenatore (terza esperienza dopo quelle del periodo 1973-1982 e 1984-1990), trova una squadra di valore in cui un giovane Shevchenko sembra avere le stimmate del campione ma, complice forse la giovane età, è ancora acerbo tatticamente e indulge in qualche eccesso poco compatibile con la vita sportiva ad alti livelli (le sigarette).

Come plasmare un campione

Oltre al gran lavoro sulla squadra (che porterà a cinque titoli consecutivi tra il 1997 e il 2001 e alla semifinale di Champions nel 1999), Lobanovski plasma e modella il giovane Andryi sul piano fisico, tattico e motivazionale. Niente fumo, allenamenti durissimi che mettono alla prova ed esaltano le grandi doti di resistenza di Sheva (forse la qualità fisica dove davvero eccelle: anni dopo, a Milanello, il personale dello staff medico e sanitario sarebbe rimasto sbalordito dai risultati dei test biometrici del campione ucraino) e una disciplina militare che fanno capire all’attaccante di belle speranze come il singolo venga dopo il collettivo e come i grandi risultati di un individuo arrivano solo se tutta la squadra gira. Le ripetute in salita con un compagno di squadra sulle spalle sono uno di quegli aneddoti che, tra mito e realtà, circondano l’aura mistica e sacrale della figura del colonnello Lobanovski. A dirla tutta, l’atmosfera militare in casa Shevchenko si è sempre respirata: il padre di Andryi, Mykola, aveva lavorato nell’esercito sovietico e per il figlio desiderava più di ogni altra cosa una carriera militare. Anche quando Sheva entrò nella Dinamo Kiev, impiegò molto tempo a convincersi dell’idea del calcio come futuro professionale stabile e definitivo per Andryi. Che a fare gol era capace, sin dai tempi delle giovanili, e che era considerato uno dei talenti potenziali del panorama europeo già prima dell’arrivo di Lobanovski. E con l’arrivo del Colonnello sulla panchina della Dinamo, il potenziale di Shevchenko esplode: nelle stagioni 1997/1998 e 1998/199, le ultime due della prima esperienza in Ucraina, segna in totale 69 gol (16 in Champions, 10 nell’edizione ‘98/’99 di cui diventa capocannoniere insieme a Dwight York, attaccante del Manchester United poi campione. Nell’edizione del Pallone d’oro di quell’anno Shevchenko si classifica terzo dietro a Beckham e al vincitore Rivaldo, ed è pronto al grande salto. Il Milan lo acquista per 45 miliardi delle vecchie lire, ufficialmente nel maggio 1999 ma, ufficiosamente, pare che l’affare si sia concluso mesi prima. Non è un caso che il 10 febbraio 1999 la Dinamo Kiev venga a giocare un’amichevole a San Siro, e che Sheva sia l’osservato speciale. Gioca bene, cerca di strafare ma non segna. Ma tra accelerazioni e sportellate con la retroguardia rossonera lascia intravedere i primi lampi di quello che il pubblico del Meazza avrebbe ammirato nelle successive sette stagioni. Curiosamente, in quella partita finita 2-1 per gli ospiti, il gol della vittoria sarà segnato da Kaka Kaladze, difensore (all’occorrenza centrocampista) georgiano che sarebbe arrivato al Milan nel gennaio 2001.

I primi anni al Milan e l’arrivo di Ancelotti in panchina


Al Milan Shevchenko si impone subito: segna all’esordio in campionato a Lecce e in Champions in casa col Galatasaray, rifila una tripletta alla Lazio all’Olimpico in un pirotecnico 4-4 e, come raccontato, nel primo derby. La stagione del Milan non è indimenticabile, in Europa la squadra esce malamente al primo girone della Champions e in Serie A finisce terzo dietro a Juve e alla Lazio, campione nell’anno dell’acquazzone di Perugia-Juve e del gol di Calori. Dal punto di vista individuale però la soddisfazione per l’ucraino è tanta: con 24 gol si laurea capocannoniere, primo straniero dopo Platini a centrare un simile traguardo al primo anno nel campionato italiano. La stagione successiva Sheva segna ancora tanto: i gol in campionato saranno sempre 24, in Champions 9 e 1 in Coppa Italia per un bottino stagionale di 34, suo record al Milan e secondo bottino stagionale di sempre. Il Milan però continua a non regalare grosse soddisfazioni a Sheva e tifosi: la squadra finisce sesta, qualificandosi per la Coppa Uefa. In Champions la squadra parte bene, classificandosi prima in un girone con Barcellona ma poi finendo terza, ed eliminata, nel secondo girone. L’unico sussulto è il derby di ritorno in cui i rossoneri rifilano un pesantissimo 6-0 ai cugini: Sheva fa una doppietta e si conferma bestia nera dell’Inter: tra campionato, Coppa Italia e Champions League nei derby l’ucraino ha segnato ben 13 gol. Nell’estate del 2001 la campagna acquisti porta alla corte del nuovo tecnico, il turco Fatih Terim, Rui Costa e Pippo Inzaghi. E un giovane Andrea Pirlo. Il Milan vuole puntare in alto, ma il progetto dell’allenatore anatolico, «l’Imperatore», non decolla e dopo una mesta sconfitta a Torino col Toro viene esonerato. Al suo posto arriva Carlo Ancelotti, e la storia del Milan cambia.

Il trionfo in Champions, lo Scudetto e il Pallone d’oro


Paradossalmente, l’arrivo del tecnico emiliano coincide con un periodo di appannamento di Shevchenko: la stagione 2001/2002 si chiude con «soli» 17 gol, di cui 14 in Serie A e 3 in Coppa Uefa, dove il Milan viene eliminato in semifinale dal Borussia Dortmund. Nel mercato estivo arrivano campioni come Nesta, Seedorf e Rivaldo, che deluderà enormemente le grandi attese. E così, nella stagione successiva, che porterà il Milan a salire sul trono più prestigioso d’Europa, segna ancora meno: solo 5 gol in campionato, 1 in Coppa Italia e 4 in Champions. Di questi, uno sarà il più importante dell’anno: nella semifinale di ritorno dell’Euroderby con l’Inter di Cuper, l’ucraino realizza il gol del momentaneo 1-0 che, anche dopo il pareggio di Martins, garantirà in base al fattore campo il passaggio del turno degli uomini di Ancelotti che voleranno all’Old Trafford di Manchester e, ai rigori, batteranno la Juve di Lippi in finale. E l’ultimo penalty di quella finale italiana è il gol forse più importante di tutta la carriera di Sheva, nonostante sia uno di quelli che non entrano nelle statistiche. Gli attimi prima del tiro, con Andriy che guarda ossessivamente arbitro e il portiere juventino, Buffon, in un meccanismo di movimento della testa quasi robotico, glaciale, sono entrati nella storia. Dopo il trionfo in Europa, nella stagione successiva il Milan vince lo Scudetto e Sheva torna a segnare come un tempo: a fine anno i gol sono 24, e gli valgono ancora una volta il titolo di capocannoniere. In Champions il Milan, che a detta di molti quell’anno è la squadra più forte, si suicida nel ritorno dei quarti di finale perdendo a La Coruña 4-0 col Deportivo dopo aver vinto 4-1 all’andata. Ma, forse complice la Grecia campione d’Europa, alle votazioni per il Pallone d’Oro la stragrande maggioranza dei giurati non ha dubbi: il più forte calciatore del mondo in quel momento è Andriy Shevchenko.

La mano di Dudek a Istanbul

Nella stagione successiva il Milan è una corazzata, rinforzata in difesa dall’arrivo dell’olandese Stam e in attacco dal bomber argentino Crespo. In campionato vive un lungo testa a testa con la Juventus, che nello scontro diretto alla 35esima giornata di ritorno sbanca San Siro con un gol di testa di Trezeguet su un assist spettacolare di Del Piero in rovesciata. Quello Scudetto sarà poi tolto ai bianconeri nell’ambito di Calciopoli e non assegnato, ma sul campo il Milan non riuscì a sopravanzare la squadra allora allenata da Fabio Capello. Ma il dramma stagionale sarà quella che, negli occhi e nelle menti dei tifosi milanisti, a distanza di oltre 11 anni è ancora la serata da incubo peggiore della storia recente (e forse non solo) del Milan. In vantaggio 3-0 alla fine di un primo tempo dominato (in cui Sheva serve l’assist del 2-0 a Crespo) nella finale di Champions League contro il Liverpool allenato da Rafa Benitez, l’undici di Ancelotti in sei, folli minuti della ripresa riesce a farsi rimontare. La partita scivola, in un misto di metafisica irrealtà e tensione ovattata, fino ai rigori. Ma al 120esimo il Milan ha l’occasione per segnare: su un cross di Serginho dalla sinistra Sheva si avventa di testa, il portiere Dudek la ribatte e l’ucraino si fionda col destro convinto di ribadire in rete a botta sicura. La palla sbatte sulla mano di Dudek e, sfidando probabilmente le leggi della probabilità e della fisica, si impenna finendo in calcio d’angolo. In quel momento agli undici rossoneri in campo e a tutti i paroli milanisti è chiaro come la parola «fine» si sia stampata a caratteri cubitali sui guanti del portiere del Liverpool. I rigori sono una necessità quasi fisiologica e, due anni dopo Manchester, a Sheva tocca ancora una volta l’ultimo: ma col Milan in svantaggio e ancora sotto choc dopo l’occasione fallita all’ultimo secondo, l’ucraino si avvia come una agnello sacrificale verso il dischetto. Lo sguardo non è più quello della tigre pronta a battere il portiere, ma è assente, spaesato e vuoto. Il rigore calciato è forse il più brutto dell’intera carriera di Shevchenko: molle, centrale, lento e a mezza altezza. Dudek non deve fare praticamente nulla per neutralizzarlo e regalare così al Liverpool la sua sesta coppa dalle grandi orecchie.

L’addio e la partenza per la deludente esperienza al Chelsea

La botta per i milanisti è terrificante. Se c’è chi, come Pirlo, ha in seguito dichiarato di aver addirittura pensato di smettere, il clima a Milanello all’inizio della nuova annata 2005/2006 è decisamente meno allegro del solito. Ciò nonostante, il Milan continua a macinare risultati, anche se in campionato la Juve, sul campo, arriva di nuovo davanti a tutti. Ma l’esplosione di Calciopoli porterà allo stravolgimento della classifica, con l’Inter che sarà poi decretata campione d’Italia. In Champions il Milan arriva fino alla semifinale, dove viene battuto dal Barcellona che vince 1-0 l’andata a San Siro. Nel ritorno al Camp Nou, però, l’arbitro annulla tra lo stupore generale un gol di testa dello stesso Shevchenko che avrebbe potuto valere almeno i supplementari. Ma dentro Sheva qualcosa si è rotto, forse da tempo: iniziano a circolare voci insistenti di una sua volontà di cambiare maglia e aria, voci che non smentisce. Anzi, in una conferenza stampa dai contorni irreali e assurdi, annuncia la sua intenzione di lasciare il Milan. La destinazione è nota da tempo: il Chelsea dell’oligarca russo Abramovich, che corteggia Sheva da almeno tre anni, gli offre un contratto faraonico. Sheva e famiglia si trasferiscono così a Londra, e per i tifosi milanisti il trasferimento rappresenta un dolore quasi pari a quello degli interisti che nel 2002 persero Ronaldo. Col senno di poi, il Milan ha forse fatto un affare: nei due anni londinesi Sheva è il fantasma del bomber implacabile degli anni d’oro nel Milan. Circolano voci di un suo essere inviso al tecnico Mourinho e allo spogliatoio dei «Blues», che mal sopportano il suo essere un pupillo del presidente. In due anni Sheva segna 22 gol, ma non risulta mai decisivo.

Il triste ritorno e gli ultimi anni di carriera

E dopo essere lasciato in panchina nella finale di Champions (persa) dal Chelsea contro il Manchester United nel 2008 dall’allenatore Grant (che ha sostituito l’esonerato Mourinho), Sheva dice basta all’esperienza inglese. E nell’estate del 2008, quella dell’arrivo trionfale di Ronaldinho dal Barcellona, torna in prestito al Milan nel tripudio dei tifosi rossoneri. Ma esaltazione e aspettative vengono amaramente deluse: in 26 presenze stagionali Shevchenko segna solo 2 gol, uno (inutile) in Coppa Italia e uno in Coppa Uefa, e l’attaccante che caracolla per il campo triste, solitario e avviato verso la parabola finale di una luminosa carriera è la pallida ombra del guerriero indomito che incrociava tacchetti e parastinchi contro i migliori difensori d’Italia e d’Europa. Alla fine dell’annata, in una surreale e mesta indifferenza generale, Sheva fa ritorno al Chelsea e dopo una sola presenza in Premier League torna lì dove tutto ebbe inizio, alla Dinamo Kiev. In tre stagioni giocherà poco ma segnerà abbastanza, tanto da essere convocato dall’Ucraina a Euro 2012. La sua doppietta alla Svezia di Ibrahimovic nella prima gara del girone finale rappresenta il canto del cigno del ragazzo di Kiev, che con 111 presenze e 48 gol è il secondo per presenze e il primo per gol nella nazionale gialloblu. Non era un brasiliano, però che gol (e quanti) che ha fatto.


Le mie foto allo stadio Lobanovsky di Kiev





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