13 giugno 2017

AFRICA Gli aiuti uccidono

Negli ultimi 10 anni, secondo quanto riporta nel suo libro un'economista africana, il suo continente ha ricevuto 515 miliardi di dollari ma i paesi che hanno preso più soldi, sono quelli da cui la gente continua a scappare. 

Alle organizzazioni non governative che fanno da tramite tra i finanziatori e i finanziati non conviene che cambi il sistema di aiuti internazionali perché è ciò che giustifica la loro esistenza

Come è facile intuire, c'è qualcosa che non funziona in questo meccanismo.


AFRICA Gli aiuti uccidono

Dambisa Moyo è un'economista africana che ha studiato a Oxford e Harvard, e ha lavorato, tra gli altri, per la Banca mondiale e Goldman Sachs. Il suo primo libro uscì nel 2009: oggi diremmo che erano «tempi non sospetti», non si poteva ancora immaginare la fuga disperata di milioni di africani verso l'Europa meridionale. Il volume s'intitolava Dead Aid (in italiano lo pubblicò Rizzoli con il titolo La carità che uccide) ribaltando lo slogan dell'epocale concerto Live Aid che 14 anni prima inaugurò la stagione, mai conclusa, degli eventi musicali benefici a favore dell'Africa. Per la Moyo, nata e cresciuta nello Zambia, l'«aiuto dal vivo» era piuttosto un «aiuto morto». La tesi era semplice: i fondi umanitari non aiutano affatto la crescita del continente ma lo impoveriscono sempre più. Anzi, rappresentano «una cornucopia d'elemosine con cui il mondo sviluppato tiene al guinzaglio l'Africa».

La carità a volte uccide, gli aiuti non aiutano, i soldi impoveriscono. E le grida d'allarme rimangono (...)

(...) inascoltate. Una fiumana di denaro da tutto il mondo sviluppato ha continuato a riversarsi sull'Africa, i concerti di beneficenza si sono moltiplicati, le stelle di Hollywood si sono lavate la coscienza viaggiando nei Paesi della fame (con troupe di fotografi e tv al seguito). Sembra che il sostegno della comunità internazionale non sia mai mancato al continente più indigente del pianeta. Eppure la miseria è dilagata. Le guerre continuano a divampare in conflitti civili e religiosi, come le persecuzioni degli islamici ai danni dei cristiani nel Sud Sudan. Gli effetti delle devastanti carestie non sono stati arginati dagli interventi delle Ong e della cooperazione. Ma soprattutto abbiamo cominciato a conoscere l'esodo di massa, la fuga dall'Africa maledetta, le ondate di disperati che rischiano l'unico bene rimasto - la propria vita - per inseguire l'ombra della speranza proiettata dall'Occidente.

DIECI PRENDITUTTO

Gli aiuti internazionali non sono mai mancati. Ma a che cosa servono? I flussi di denaro sono colossali. Secondo le statistiche dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dal 2006 al 2015 sono piovuti in Africa 515,8 miliardi di dollari tra contributi ufficiali pubblici e privati. Una massa enorme di denaro, che è cresciuta anno dopo anno: dai 27,7 miliardi del 2006 ai 51,8 del 2015 si registra un aumento dell'87 per cento. Quasi il doppio, nonostante la crisi finanziaria internazionale e gli investimenti produttivi fatti in Africa, esclusi da questo conteggio: segno che non si può rimproverare ai Paesi sviluppati una perdita di attenzione e un irrigidimento dell'impulso solidale.

Nel complesso questa quantità di soldi è stata assorbita per oltre metà (54 per cento) da dieci Paesi che, con l'eccezione del Sudafrica, sono anche quelli da cui si sta registrando l'esodo più consistente di persone verso il Mediterraneo: in testa si trovano Egitto, Nigeria, Marocco, Etiopia. Se guardiamo i soli dati del 2015, a queste nazioni si aggiungono Algeria, Congo, Uganda. La distribuzione degli aiuti rispecchia l'evolversi delle crisi umanitarie. In base ai dati del Viminale, infatti, dall'inizio del 2017 fino a metà maggio il più alto numero di migranti sbarcati sulle coste italiane (in tutto 50.041, il 47,5 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso) proveniva proprio dalla Nigeria.

Il parallelismo è sconcertante. Proprio i Paesi destinatari delle quote maggiori di aiuti internazionali sono quelli da cui fuggono più persone. I fiumi di denaro della cooperazione s'ingrossano ma la povertà in cui campano gli africani non arretra. I soldi non bastano mai e la gente che fugge disperata è sempre più numerosa. Dalla Nigeria martoriata dalle milizie islamiste di Boko Haram e dalla siccità del Sahel sono sbarcate in Italia solo quest'anno 6.516 persone nonostante che nel 2015 il Paese africano avesse ricevuto quasi 21 miliardi di euro di aiuti, di gran lunga la quota maggiore di una singola nazione. Dalla Guinea sono approdati 4.712 profughi a fronte di aiuti nel 2015 per 217 milioni di dollari (1,3 miliardi nel decennio); dalla Costa d'Avorio 4.474 profughi (1,2 miliardi di sovvenzioni nel 2015, 3,5 nel decennio).

SEMPRE PIÙ POVERI

Ancora: dal Senegal sono sbarcati 3.069 profughi (784 milioni di aiuti, 6,1 miliardi nel decennio); dal Mali 2.240 (683 milioni nel 2015 e 6 miliardi nel decennio); dal Sudan 1.395 (511 milioni di dollari nel 2015, 12,6 miliardi complessivamente dal 2006). Il caso forse più paradossale è quello del Marocco. Il re Mohammed VI lo ha reso il Paese più sicuro dell'Africa a nord del Sahara, ha portato internet, sviluppato aziende, costruito autostrade anche grazie alla massa di finanziamenti tracciati dall'Ocse nel decennio: 27,3 miliardi di dollari, quarta nazione del continente dietro a Egitto, Nigeria, Sudafrica. Eppure dal Marocco si continua a fuggire perché nei primi mesi del 2017 hanno attraversato il Mediterraneo 3.055 magrebini. Secondo l'Istat al 1° gennaio 2016 vivevano in Italia 437.485 marocchini, terza comunità straniera presente in Italia dopo romeni (22,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio) e albanesi (9,3): i marocchini ne costituiscono l'8,7%.

In Africa non esiste un solo Paese che possa smentire il trend individuato anni fa dagli osservatori più avveduti: gli aiuti dei Paesi occidentali non alleviano la povertà dei popoli di colore. Dal dopoguerra al Duemila, ha calcolato Dambisa Moyo nel suo libro, sono stati convogliati oltre 1.000 miliardi di dollari e ancora oggi nel continente nero l'80 per cento della popolazione deve sopravvivere con meno di un dollaro al giorno.

TASSE E CORRUZIONE

L'assistenzialismo non è la ricetta che possa cambiare la governance africana. Tra il 1970 e il 1998, anni in cui i sussidi al continente sono cresciuti vigorosamente, il tasso di povertà è complessivamente salito dell'11 per cento. Prima ancora che le condizioni di salute, il riscaldamento globale e il terrorismo, il deficit numero 1 dell'Africa riguarda la crescita economica: dove c'è sviluppo produttivo e miglioramento dei redditi si verifica anche una maggiore tutela della salute con un terreno meno favorevole al terrore delle armi. Ma sul fronte dei cambiamenti strutturali nulla si muove. Secondo il Rapporto 2017 sulla competitività dell'Africa stilato dal World economic forum, la fondazione svizzera che ogni inverno promuove il vertice di Davos, i fattori più problematici per la crescita del business nel continente sono l'accesso ai finanziamenti, la corruzione, la tassazione, l'inefficiente burocrazia statale e l'instabilità politica. Fatto 100 l'accesso all'elettricità nei Paesi sviluppati, l'indicatore scende a 78 nell'Asia meridionale e precipita a 48 nell'Africa subsahariana. I consumi elettrici in Africa sono di 570 chilowattora pro capite contro gli 8.082 dei Paesi sviluppati. Soltanto il 39 per cento degli africani ha accesso alle cure sanitarie (98 nei Paesi Ocse) e il 72 all'acqua.

ONG POCO CHIARE

Il deficit infrastrutturale resta dunque tragico. Ma il divario può venire colmato soltanto da investimenti produttivi, che per esempio la Cina sta sviluppando moltissimo a costo di colonizzare a sua volta buona parte del continente. Il sistema degli aiuti invece consente ai grandi donatori di tenere l'Africa in una condizione di inferiorità perenne, tanto più che i finanziamenti finiscono molto spesso nelle tasche dei dittatori e degli sfruttatori. Quando un governo sa di poter contare su beni che non dipendono dalla propria azione (come i sussidi che la solidarietà internazionale comunque eroga, ma anche la ricchezza delle risorse naturali), esso perde interesse a perseguire obiettivi di sviluppo.

Ma oltre ai tiranni locali che alimentano i propri conti bancari offshore e alle grandi organizzazioni internazionali espressione dei Paesi sviluppati che perpetuano il controllo sul continente, esiste un'altra realtà che non ha interesse a modificare la subalternità africana: sono le Ong. Alle organizzazioni non governative che fanno da tramite tra i finanziatori e i finanziati non conviene che cambi il sistema di aiuti internazionali perché è ciò che giustifica la loro esistenza. Un sistema opaco, dove non regna la trasparenza e dove si compiono indisturbati, come s'intitola un libro dell'economista americano William Easterly, I disastri dell'uomo bianco. Sottotitolo: «Perché gli aiuti dell'Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene».

Stefano Filippi [Link]

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