22 gennaio 2018

Case chiuse: ecco dove il modello ha già fallito

L'argomento è un evergreen e torna puntualmente alla ribalta in concomitanza delle elezioni. Bordelli si o bordelli no? Siamo sicuri che sia un modo efficace per stroncare l'illegalità e lo sfruttamento? Nell'articolo seguente, un reportage tra Germania, Svezia e Olanda, sembrerebbe sollevare molti dubbi.


Case chiuse in Italia? Viaggio nei bordelli della Germania, dell’Olanda e della Svezia

Dalla Germania all’Olanda, un viaggio tra violenza e sfruttamento

Chiusi, blindati e poi riconvertiti a nuova destinazione d’uso dopo la legge Merlin del 1958, i “bordelli” in Italia potrebbero riaprire i battenti in un futuro prossimo. In vista delle elezioni politiche del 4 marzo, infatti, è tornato d’attualità, come periodicamente avviene, il tema della regolamentazione delle cosiddette case di tolleranza e della tassazione del lavoro delle prostitute.

Il sasso nello stagno del dibattito lo ha lanciato la scorsa settimana il segretario della Lega, Matteo Salvini, con un tweet in cui sostiene che la legalizzazione della prostituzione porterebbe benefici sia per le casse dello Stato sia per le persone che offrono prestazioni sessuali per denaro. Già nel corso degli anni passati il Carroccio ha provato, senza esito, a far approvare qualche emendamento per reintrodurre in Italia queste strutture adibite al sesso mercenario.

L’idea di base è che la regolamentazione servirebbe a stroncare la rete criminale che gestisce la tratta delle prostitute e a togliere dalla strada le “lucciole” per trasferirle in luoghi igienici e tutelati dallo Stato. La manovra, inoltre, porterebbe benefici economici alle case statali attraverso la tassazione del lavoro delle prostitute. Salvini nel suo tweet invita a seguire l’esempio dei “Paesi civili” che già da diversi anni si sono dotati di leggi che disciplinano quello che la vulgata popolare definisce “il mestiere più antico del mondo”.

Come funziona in Germania

Uno dei Paesi a cui il leader leghista fa riferimento è, verosimilmente, la Germania. Il Bundestag (il Parlamento tedesco) ha approvato nel 2001 la legge sulla prostituzione, grazie ai voti dei socialdemocratici e dei verdi, allora al Governo in una coalizione guidata dal cancelliere Gerhard Schröder. La misura sulla regolamentazione del sesso a pagamento entrò in vigore il 1° gennaio 2002 (proprio lo stesso giorno dell’Euro) e scatenò una ridda di polemiche. I fautori di questa novità libertaria tacciarono i contrari di essere dei paranoici tutori della morale pubblica, più interessati al buon costume che non al bene delle persone coinvolte.

Il fallimento tedesco

Eppure la realtà dei fatti, a sedici anni dalla riapertura delle “case chiuse”, è tutt’altro che rosea. Una lunga inchiesta dello Spiegel, nel 2013, ha sottolineato come gli effetti della normativa siano più negativi che positivi. Eloquente il titolo: “Come la legalizzazione della prostituzione ha fallito”.

Prima della legge del 2001, in Germania la prostituzione non era punita, ma non veniva considerata una professione. Non si rilasciavano licenze per i “bordelli”, alle donne che vendono il corpo non erano riconosciute garanzie assicurative in materia di malattia, disoccupazione e pensione. Era inoltre punita l’attività del favoreggiamento, che ora è invece consentita, a patto che l’incasso del “protettore” non superi la metà di quello della prostituta. In questo caso il favoreggiamento diventa “sfruttamento” si trasforma in reato. I sostenitori della legge avevano stimato che circa 400mila prostitute avrebbero scelto, liberamente, di regolarizzare il proprio status professionale. Tuttavia soltanto una minima percentuale si è messa in regola.

Un ricettacolo di sfruttamento di ragazze dell’Est
Delle decine di migliaia di donne che si prostituiscono in Germania, una percentuale tra il 65 e l’80 proviene dall’estero, la maggior parte da Romania e Bulgaria. Ma ciò che spinge queste giovani a lasciare il proprio Paese – sottolinea lo Spiegel – è quasi sempre una prospettiva diversa da quella di vendere il proprio corpo.

Il quotidiano tedesco riporta la storia di Alina, ragazza rumena finita a lavorare in una delle circa 500 case chiuse attive nei pressi di Berlino. La sua condizione è analoga a quelle di tante schiave che si prostituiscono sulle strade o negli appartamenti clandestini italiani: sfruttata e costretta a dipendere dal suo “protettore”. Nonostante la legge del 2001 preveda che le prostitute possano decidere quali servizi sessuali offrire ai clienti, ad esempio, Alina racconta di essere obbligata a svolgere ogni tipo di attività a letto.

Allo Spiegel è Mafrud Paulus, ex capo detective della città meridionale di Ulma, a testimoniare come sia impervio per le forze pubbliche accedere nei quartieri a “luci rosse” e riuscire ad individuare il sommerso. L’uomo racconta che la Germania è diventata “un centro per lo sfruttamento sessuale di giovani donne dall’Europa dell’Est, tanto quanto una sfera di attività per i gruppi del crimine organizzato di tutto il mondo”.

Le sue parole attestano che il proposito di contrastare sfruttamento, criminalità e violenza non coincide con la regolamentazione del “mestiere più antico del mondo”. Ma già nel 2005 il Ministero della Famiglia tedesco era stato costretto ad ammettere che la legge era stata un fallimento. Un documento sottolineava come non vi fosse “alcuna prova solida che dimostrasse” che la legalizzazione avesse ridotto la criminalità, né che fossero migliorate le condizioni di lavoro delle prostitute e la possibilità di abbandonare questa attività.

Il blitz della Polizia

La polemica, in Germania, si era rinfocolata nel 2009, quando un robusto contingente della Polizia aveva fatto irruzione in diversi “bordelli” del Paese per verificare se fosse tutto in regola. Tre di questi vennero chiusi per “cattive condizioni igieniche”. Almeno in una di queste strutture, i poliziotti avrebbero trovato prove di prostituzione forzata. Le persone finite in manette erano state dodici.

Una delle case chiuse coinvolte nel blitz della Polizia pubblicizzava le proprie attività dichiarando che offriva sesso “con ogni donna, finché vuoi, tutte le volte che vuoi e come vuoi”. Il ministro della Giustizia dello Stato del Baden-Württemberg, Ulrich Goll, aveva definito quel messaggio “una violazione del diritto alla dignità umana delle prostitute che lavorano lì”. Insomma, aveva posto un sigillo di bocciatura sulla legge approvata con squilli di tromba nel 2002.

Il confronto con la Svezia

Tre anni prima, nel 1999, anche la Svezia aveva deciso di affrontare il tema della prostituzione dal punto di vista legislativo. L’approccio degli scandinavi fu però decisamente diverso: il Parlamento di Stoccolma rese illegale comprare i servizi sessuali, in ogni caso, introducendo pene nei confronti dei trasgressori.

A differenza di quanto accaduto in Germania, la legge svedese, ribattezzata il “modello nordico”, portò presto risultati piuttosto confortanti. Risale al 2004 uno studio di Gunilla Ekberg, avvocato esperta di prostituzione e traffico di esseri umani, dal quale emerge che il numero totale delle prostitute in Svezia era sceso da circa 2.500 del 1999 a circa 1.500 del 2002. In gran parte sgominata anche la prostituzione sui marciapiedi, ridotta dal 50 al 30 per cento.

Lo studio della Ekberg non affronta il tema dello sfruttamento, che invece è stato al centro di una ricerca del 2012 da parte di alcuni accademici e riportato su Il Post. Il documento rileva che le vittime del traffico di esseri umani “nel 2004 in Danimarca coinvolgeva  2.250 persone, mentre in Svezia circa 500, un numero oltre quattro volte più grande, nonostante la popolazione svedese sia solo il 40 per cento in più di quella danese”.

Che il “modello nordico” abbia prodotto risultati in tema di tutela della dignità umana ne è persuasa anche la Commissione Pari opportunità del Parlamento europeo, giacché ha approvato nel 2014 una risoluzione che invita i Paesi membri a seguirlo in quanto ciò “comporterebbe significativi progressi”.

L’autocritica olandese

Significativo che anche in Olanda, la patria della prostituzione legale e dei quartieri a “luci rosse”, le autorità lancino campanelli d’allarme alle orecchie di chi vuole seguire il suo esempio. Il vicesindaco di Amsterdam nel 2011, Lodewijk Asscher, non esitò a definire la depenalizzazione dello sfruttamento della prostituzione un “errore nazionale” compiuto da un Governo “ingenuo”. Del resto, rileva uno studio della polizia olandese, “tra il 50 e il 90% delle donne dietro le vetrine sono prostitute in situazione di costrizione”.

Dov’è la civiltà?

Sono gli stessi “Paesi civili” evocati da Salvini, pertanto, a sconfessare le loro leggi libertarie sul sesso mercenario alla luce di dati inoppugnabili. Ed è curioso che il leader della Lega si faccia promotore di una legge che in Germania è considerata figlia di quel “politicamente corretto” del quale, di fatto, lui è acerrimo antagonista. Ecco infatti cosa afferma la giurista Rahel Gugel, docente di diritto nel lavoro sociale presso presso il Baden-Württemberg Cooperative State University, a proposito della legge sulla prostituzione del suo Paese: “In Germania è considerato politicamente corretto rispettare le decisioni delle singole donne, ma se si desidera proteggere le donne, questo non è il modo per farlo”.

La Gugel rileva che la maggior parte delle prostitute in Germania sono state picchiate e violentate, molte soffrono di depressione, ansia e tossicodipendenza: se potessero, uscirebbero subito dal giro della prostituzione. Anche la docente rileva quindi che la via maestra da seguire sia quella del “modello nordico”. Quello sì – asserisce la Gugel – che è davvero un esempio di civiltà.

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